“Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
Questa parola di Gesù ascoltiamo oggi a Messa nel Vangelo (Lc 17,7-10) . L’affermazione potrebbe sembrare difficile da comprendere, quasi denoterebbe in senso spregiativo l’essere servi e il servizio stesso.
Se però consideriamo che Gesù si definisce servo (Lc 22,27) e indica la missione dei suoi discepoli come servizio (Lc 22,26), capiamo che in questa frase deve esserci tutt’altra ricchezza di significato. Facendo riferimento a un’altra immagine evangelica, l’invito a considerarsi servi inutili nasconde un vero e proprio tesoro di significato, delle cui preziose gemme oggi ci soffermiamo per ammirare quelle legate a un contesto vocazionale.
Il sacerdote, infatti, è essenzialmente (cioè costituito nella sua essenza più intima dal sacramento dell’ordine) un servo. Servo per amore, come recita un noto canto liturgico.
Secondo molti autori la parola servo ha origine nel verbo serbare, conservare, custodire. Il sacerdote è, quindi, servo perché il suo compito principale è conservare il cuore di Cristo nel suo cuore, custodire il tesoro prezioso del Signore, che è ogni singola persona, offrendo la propria vita per la sua salvezza.
Gesù chiede ai suoi “servi” (sacerdoti) di considerarsi “inutili”. Anche in questo caso può venirci incontro l’etimologia del termine. Inutile, infatti, non è da intendersi come insignificante, buono a nulla, ma in un duplice senso:
– Nel linguaggio dell’epoca significava “che non cerca l’utile”, che non ha un secondo fine, non fa le cose per guadagno. Quindi il sacerdote non può e non deve cercare utile dalla propria missione, guadagno dai propri sforzi pastorali. Unico suo tesoro, e che tesoro, è la benedizione di Dio; abitare la sua casa! D’altronde la parola “clero” significa colui che ha come eredità Dio!
– Nell’originario termine greco “inutile” significa anche “povero”, per cui il detto di Gesù potrebbe essere tradotto in “Siamo poveri servi”, o meglio “semplicemente servi”, con un chiaro invito ai sacerdoti a non considerarsi e non pretendere di più dell’essere semplici servi, condizione di per sé nobilissima perché configura a Cristo stesso.
Don Michele Fontana