Un uomo ricco ha un economo che ne gestisce gli affari, ma questo risulta essere un dissipatore dei suoi beni. Lo chiama e gli chiede conto dell’amministrazione.
È qualcosa che accade abbastanza spesso, perché la tentazione dell’ingiustizia, del pensare a se stessi e del non essere responsabili di una proprietà altrui, o pubblica, è facile e ricorrente.
L’economo, di fronte alla prospettiva di perdere il lavoro, ragiona tra sé: “Che cosa farò? Lavorare la terra? Non so farlo, non ne ho più la forza. Mendicare? Mi vergogno”.
Giunge a una soluzione: “farsi amici” alcuni debitori del suo padrone, per contare su di loro in futuro.
Li convoca. Al primo, che deve cento barili d’olio, ne condona arbitrariamente cinquanta. A un altro, che ha un debito di cento sacchi di grano, ne annota solo venti.
Il padrone, venuto a conoscenza dell’inganno ai suoi danni, inaspettatamente si congratula con l’economo disonesto.
Perché l’elogio? Perché ha agito con “scaltrezza”.
La prima parte della parabola invita a riflettere sull’ingiustizia in cui tutti possiamo cadere nell’uso di beni altrui: oggetti, risorse, o denari appartenenti ad altri, ma anche beni di pubblico dominio (strade, verde, giardini, parchi, aiuole, sentieri, pinete, panchine, muri, mezzi pubblici, bagni pubblici, ecc.).
La conclusione inaspettata della parabola, e le parole del proprietario, spingono invece, a riflettere sul significato di essere “scaltri”.
L’aggettivo trae origine da un verbo che noi comunemente traduciamo con “rosolare”. Sì, cuocere a fuoco lento una vivanda in modo che, indurendosi e facendo una crosticina, non solo diventi più commestibile, ma insaporisca anche il sugo.
Quell’amministratore è scaltro perché è capace di “rosolare” la sua vita, rendendo “commestibile “ (vivibile) il suo futuro.
La Parabola chiarisce anche come “rosolare” la vita: facendosi amici; donando e condividendo le ricchezze.
L’amicizia dona sapore alla vita.
Don Michele Fontana