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L’adulto che ci manca

L’adulto che ci manca: come essere annunciatori credibili e appassionati del vangelo della vocazione
di don Armando Matteo

«Dove sono gli uomini e le donne adulte, coloro che hanno lasciato alle spalle i turbamenti, le contraddizioni, le fragilità, gli stili di vita, gli abbigliamenti, le mode, le cure del corpo, i modi di fare, persino il linguaggio della giovinezza e, d’altra parte, non sono assillati dal pensiero di una fine che si avvicina senza che le si possa sfuggire? Dov’è finito il tempo della maturità, il tempo in cui si affronta il presente per quello che è, guardandolo in faccia senza timore? Ne ha preso il posto una sfacciata, fasulla, fittiziamente illimitata giovinezza, prolungata con trattamenti, sostanze, cure, diete, infiltrazioni e chirurgie; madri che vogliono essere e apparire come le figlie e come loro si atteggiano, spesso ridicolmente. Lo stesso per i padri, che rinunciano a se stessi per mimetizzarsi nella cultura giovanile dei figli» (Gustavo Zagrebelsky).

Introduzione
Che cosa è questo “adulto che ci manca”? È un tentativo sintetico di affermare che noi adulti siamo sempre di meno all’altezza della nostra naturale e indispensabile vocazione generativa ed educativa.
Di questo si deve parlare. Questo è il problema dei problemi. Noi adulti veniamo meno alla nostra vocazione all’adultità e quindi siamo meno capaci di generare alle vocazioni. La prima essenziale e fondante vocazione che ogni uomo ha è quella di essere adulto. E non è un discorso da teologo o da rete. In verità non c’è studioso della nostra epoca che non sottolinei una tale situazione.
Umberto Galimberti parla del nichilismo quale ospite dell’anima dei nostri giovani, il quale
nichilismo li porta a non percepire più alcuna potenzialità per il loro cammino di vita, in quanto la
generazione degli adulti sta consumando tutto, pure il futuro.
Francesco Cataluccio ha diagnosticato l’immaturità quale malattia del nostro tempo, a causa della quale, come le mezze stagioni e le lucciole, sono scomparsi pure gli adulti, ed in giro si vedono solo bambini e vecchi, che non di rado si scambiano i ruoli.
Massimo Recalcati ha riportato in auge l’analisi di Jacques Lacan circa l’evaporazione del padre, che egli intende sostanzialmente come rifiuto degli adulti della loro differenza generazionale che li costituisce essenzialmente “educatori” del desiderio dei figli e promotori della loro entrata nel mondo, mentre al presente assistiamo ad un continuo surriscaldamento globale delle nostre famiglia (i bisogni sono soddisfatti prima che vengano espressi) ed ad una continua glaciazione dei rapporti sociali (per questo i figli in casa hanno tutto, in società mancano di tutto; a casa l’esistenza sembra senza domande, in società senza risposte); sulla stessa scia si muovono pensatori come Luigi Zoja e Claudio Risé; Gustavo Pietropolli Charmet denuncia il continuo inquinamento della nostra mente da parte della pubblicità e della comunicazione massmediale (ovviamente in mano a noi adulti) con valori falsi e pericolosi – la bellezza, la giovinezza, la sensualità, ecc… – che producono non poche ferite nella psiche degli adolescenti; Mauro Magatti ha parlato di una contemporanea duplice crisi dei matrimoni e dei patrimoni, legata ad un esercizio della libertà eccessivamente individualistico che non sa più vivere la logica veramente e propriamente “adulta” del dono e della generatività; Francesco Stoppa parla di un’incapacità degli adulti di smettere il loro gioco di eterni giovani, venendo così a creare pericolose derive di concorrenza generazionale al posto delle salutari conflittualità generazionali; Vittorino Andreoli non teme di dichiarare im-possibile l’educazione; Michele Serra, nel suo romanzo “Gli sdraiati”, ricorda con tanta forza quanto oggi si sia dimenticata l’arte di invecchiare, senza la quale però il dialogo tra le generazioni è assai difficile.
Il gesuita Giovanni Cucci non teme di parlare di “una scomparsa degli adulti” e proprio di recente in un piccolo ma incisivo saggio dal titolo quanto mai evocativo di “Senza adulti”, il giurista Gustavo Zagrebelsky ha potuto giustamente scrivere le parole con le quali mi sono introdotto.
Detto sinteticamente: gli adulti non sono più quelli di una volta. Non sono più all’altezza della loro specifica vocazione. Ed è questo che rende anche il nostro lavoro “vocazionale” molto più complicato che nel passato. L’adulto che ci manca è cifra sintetica di quella anoressia di cui oggi soffre la cultura della vocazione.

Come procediamo ora? In tre passaggi scanditi da tre domande: – che cosa significa che gli adulti non sono più quelli di una volta? – che cosa comporta questa “scomparsa degli adulti” nell’ambito dell’educazione-trasmissione della fede? – che cosa ci è chiesto di fare davanti a tale situazione?

1. Gli adulti non sono più quelli di una volta.
Ma che cosa significa precisamente che gli adulti non sono più quelli di una volta? Significa
prendere coscienza che la stragrande maggioranza di coloro che hanno compiuto e oltrepassato i 35 anni (una parte enorme della società italiana attuale), del grande e nobile “mestiere dell’adulto” – della vocazione, del compito, del “ministero”, del servizio connesso all’essere adulto e del ruolo educativo specifico e irrinunciabile connesso a quest’età della vita – non vuole proprio saperne!
Sono diventati – come dice il titolo di un simpaticissimo film – degli Immaturi. Più precisamente è la generazione nata tra il 1946 e il 1964 che ha compiuto una rivoluzione copernicana circa il sentimento di vita. Oggi al centro delle sue attese non c’è la volontà di diventare adulto, e quindi responsabile della società e del suo futuro, ma quella di “restare giovane” ad ogni costo. Questa generazione rinnega perciò l’identità strutturale dell’adultità, che è quella di sapersi dimenticare di sé in vista della cura d’altri. Qui ha radice la vocazione dell’essere adulto e in verità ogni altra possibile vocazione. Che cosa succede al contrario nella generazione adulta odierna? Come scrive Francesco Stoppa, «La specificità di questa generazione è che i suoi membri, pur divenuti adulti o già anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovani come sono stati loro, nessuno potrà più esserlo – questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla, al tempo, al corpo che invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane».
Il contenuto di questo ideale di giovinezza nulla ha a che fare con ciò che normalmente si intende con “spirito della giovinezza” o “giovinezza dello spirito”. La giovinezza come ideale è qui intesa piuttosto come grande salute, performance, libertà sempre negoziabile, via sicura per l’affermazione della propria sessualità, del proprio successo, del proprio fascino, disponibilità ininterrotta a “fare esperienze”, a completarsi e a rinnovarsi.
Va da sé che qui non esiste più alcuno spazio per il lato etico-morale, educativo, specificante l’età adulta: definitività delle scelte lavorative ed affettive, anche quando non sono più all’altezza delle promesse che avevano lasciato intravedere all’inizio; responsabilità generativa ed educativa, che comporta quel costante oblio di sé a favore di altri; impegno appassionato per un’accurata e costante manutenzione dello spazio politico, condizione essenziale per la realizzazione del bene dei figli; e da ultimo consumazione del lutto con la presa di coscienza del proprio inevitabile destino mortale, con tutto il carico di lavoro su di sé che questa crisi comporta e che apre lo spazio per il passaggio del testimone (gli Dei greci immortali normalmente mangiano i figli…).
Per questo l’orizzonte di riferimento degli adulti attuali – annota Marcel Gauchet – è quello di «essere il meno adulti possibile, nel senso peggiorativo acquisito dal termine, sfruttarne i vantaggi aggirandone gli inconvenienti, mantenere una distanza rispetto agli impegni e ai ruoli imposti, conservare il più possibile delle riserve per altre possibili direzioni». Quella degli adulti è perciò una generazione che ha fatto della giovinezza il suo bene supremo: si può dire per paradosso che è una generazione che ama la giovinezza più dei giovani. Più dei figli. Ed è a causa di questo amore al contrario che sta procedendo ad un inquinamento senza precedenti del nostro immaginario valoriale di base, dalla lingua che parliamo alla grammatica fondamentale dell’esistenza umana: la vecchiaia, la malattia, la fragilità umana, la morte e infine la stessa giovinezza. Con gravi ricadute nell’educativo e nel contributo alla catechesi, alla trasmissione della fede. Vediamo. A livello linguistico: se uno muore a 70 anni si dice che è morto giovane, se uno ha quarantacinque anni è ancora un ragazzo, un giovane: può aspettare perciò…
In Chiesa abbiamo i giovani, i giovanissimi, i giovani adulti, gli adulti giovani, i diversamente giovani e gli adultissimi… Per questo la vecchiaia è diventata oggi il nemico “numero uno” della nostra società: è parola eliminata da Wikipedia (chiedetevi semplicemente: quando diventerò vecchio? Cioè a quale età dichiarerò di essere vecchio?), nulla si vende che non sia “anti-age”, è l’ultima e imperdonabile offesa che si possa rivolgere ad un essere umano, è il tallone d’Achille su cui mortalmente ci ferisce la pubblicità e il sistema economico capitalistico (“a tutto possiamo resistere, tranne a ciò che ci aiuta a lottare contro la vecchiaia”).
A questo proposito è importante tenere conto della straordinaria capacità del mercato di inserirsi brillantemente in questi processi di riscrittura della qualità adulta dell’umano: adulti che non vogliono smettere di fare i giovani sono perfettamente adesivi al sistema economico imperante, che ha sempre bisogno di elargire soddisfazioni “a termine” e quindi di alimentare l’insoddisfazione dei consumatori. Un consumatore soddisfatto è l’incubo del mercato. Il mito della giovinezza va a braccetto con questo sistema: esiste qualcosa di più irraggiungibile della giovinezza? No, ma se tu pensi che sia possibile (ed è questo che induce a credere il mercato) allora inizi a spendere e paradossalmente più la insegui, più ti sfugge, la giovinezza. Ma non importa. L’importante è spendere e così ogni anno sborsiamo 10,6 miliardi di euro per la cosmesi, comprese le lozioni contro la caduta dei capelli! Oltre che con la vecchiaia, cambia il nostro rapporto con la medicina (e quindi con la fragilità umana): non è più un sintomo, un messaggio da parte del corpo (stai facendo troppo, corri di meno, mangia meglio, dormi di più, smetti di fumare), ma è intesa come un’interruzione, un blocco di motore, che basta rimuovere per ripartire. E abbiamo medicine sempre più potenti. E la pubblicità ci raccomanda di non leggere le avvertenze (negli spot pubblicitari questo passaggio è sempre velocissimo).
Un discorso simile vale per la morte: essa ha subìto un incredibile esorcismo linguistico che l’ha fatta sparire anche dai manifesti funebri: in Italia, la gente scompare, viene a mancare, compie un transito, si spegne, si ricongiunge, si addormenta, va qui, va là… Nessuno che semplicemente muoia! Ne deriva che, a questo punto, parlare di educazione oggi risulta gravemente faticoso proprio in quanto l’adultità è rinnegata da coloro che dovrebbero incarnarne i contenuti umani e che quindi il gesto dell’educare, che implica sempre la segnalazione di una metà verso la quale indirizzare i non-ancora-adulti, risulta semplicemente impossibile.
Di più: se gli adulti desiderano e fanno di tutto per restare giovani – ed è il mercato con incredibile generosità si applica a sostenerli in questa lucida follia – ciò che posso comunicare educativamente ai loro ragazzi è il comandamento di non crescere, di non spostarsi, di non muoversi: rischierebbero di perdere cioè la giovinezza! Ed è esattamente qui che l’educazione, da gesto del movimento verso, si trasforma in un’ossessionante forma di preoccupazione, di controllo, perdendo quel profilo essenziale e dinamico dell’asimmetria, della conflittualità, della testimonianza di una differenza accolta senza risentimento.

2. Perché non educhiamo più
La relazione educativa adulto-giovane, genitore-figlio, si basa su una semplice struttura, che può essere restituita così all’intelligenza: nell’essere dell’adulto il giovane dovrebbe trovare iscritta questa legge: “Lì dove sono io, là sarai tu”, quindi cammina, datti da fare. Nella lingua tedesca esiste una straordinaria complicità tra il termine che dice formazione – Bildung – e il termine che dice immagine – Bild. Questo ci ricorda che si diventa adulti, guardando gli adulti. D’altro canto la parola “adolescente” nulla altro significa che tempo per diventare adulti. Come? Guardando appunto gli adulti. Cosa comporta ora la rivoluzione, compiuta dagli adulti attuali, del sentimento di vita che tutto fa scommettere sulla giovinezza? Comporta che, nella carne vivente di ogni adulto, il giovane trovi quest’altra disperata legge: “Lì dove tu sei, io sarò”. Insomma: non ti muovere. Tu sei nel paradiso. Tu sei paradiso. L’unico a dover uscire (e-ducere) dal suo possibile cammino sull’orlo della vecchiaia, della morte, del non senso che è “il non essere più giovane”, sono io adulto.
Se per gli adulti, allora, il massimo della vita è la giovinezza e tutto il resto è non-senso, che cosa dovrebbero essi insegnare, segnalare, indicare, mostrare ai giovani? Se per gli adulti crescere è la cosa peggiore che esista e l’età adulta non ha senso, mentre il vero paradiso è nella giovinezza, perché i giovani dovrebbero allontanarsi da esso?
Un ultimo elemento deve essere ancora preso in considerazione: se gli adulti attuali interpretano la loro esistenza come un’esistenza da giovani permanenti e impenitenti, è giocoforza che non saranno più in grado di discernere la vera età dei figli e le connesse esigenze di crescita. Per loro saranno sempre dei “bambini”, dei “ragazzi” (temine, quest’ultimo che gli adulti usano anche per persone che hanno abbondantemente superato la soglia dei trent’anni), cosa che ostacola ancora di più l’assunzione di quel ruolo educativo adulto che comporta appunto la conflittualità, la capacità di dire no e ancora di più quella di saper contenere l’eventuale frustrazione e inevitabile dispiacere che il no adulto comporta nel figlio.
Quest’ultimo sarà sempre considerato troppo piccolo, troppo delicato, per essere sottoposto a tali esperienze previste da ogni processo di crescita che voglia giungere a buon fine.
In verità fa parte appunto dell’essere adulto la capacità di sviluppare quello spazio interiore in cui contenere il dispiacere, il dolore, per il dolore e per il dispiacere che provoca nel figlio, quando educa, rinviando l’esecuzione di un desiderio, dicendo di no, frustrando un capriccio, evidenziando un mancato sforzo o un compito eseguito con i piedi.
Sulla base di queste considerazioni si capisce perché le nostre famiglie non siano più nelle condizioni di aiutare i propri figli a diventare adulti, trasformando il prezioso e delicato compito della cura educativa in una sostanziale prassi di controllo e preoccupazione dei figli. La recente collocazione esistenziale della generazione adulta rende, insomma, il processo educativo quasi del tutto impossibile. Dobbiamo amaramente riconoscere come oggi si sia imposto un profilo di genitore a basso regime di responsabilità. Si pensa – e si agisce di conseguenza – che non sia più necessario educare i figli, essendo sufficiente voler loro del bene, preoccuparsi per loro e controllarli. Basta insomma coccolarli, procurar loro delle cose e risparmiar loro fatica, programmandone costantemente le attività. Basta letteralmente pre-occuparsi, ovvero occupare e predisporre prima i posti che loro dovranno occupare. Questa è la strategia dei cosiddetti genitori “spazzaneve”, già citati; è ancora la logica dei genitori “amuchina”, che sterilizzano e detraumatizzano tutti gli ambienti destinati alla crescita dei loro pargoli.
L’espressione corrente per dire tutto questo è quella del controllo. Educare è oggi voce del verbo controllare. Si tratta di un gesto che ormai procede ben oltre la normale dose di precauzioni e di cautele legate all’esercizio della genitorialità. Siamo davanti a un esercizio del controllo semplicemente asfissiante per gli stessi ragazzi e che i genitori interpretano paradossalmente come autentica forma d’amore.
In verità, osserva lucidamente Federico Tonioni, «tutte le volte che controlliamo di nascosto quello che [i figli] fanno o cerchiamo di capire quello che pensano non si tratta di “amore speciale”, ma dell’incapacità di separarsi da loro. Se con il tempo, questa tendenza non accennerà a diminuire, la tentazione di trattenere “a fin di bene” la loro vitalità sarà più forte della disponibilità a offrire fiducia. È così che, al di là delle nostre intenzioni, rischiamo di diventare un impedimento per la loro crescita».
Ed è per questo che oggi diventare adulti rappresenta una fatica di grande rilievo: i nostri ragazzi e i nostri giovani non trovano davanti a sé adulti, con i quali poter entrare in un salutare rapporto di conflittualità educativa, ma adulti che cercano permanentemente di sedurli nella loro condizioni di vita giovane beata, affinché a tutto pensino tranne che a crescere; la loro crescita, infatti, decreterebbe – ed in modo che nessuna crema o pillola colorata o bisturi possa far credere il contrario – il loro (dei genitori) diventare adulti o già vecchi: in una parola la loro espulsione dall’universo della giovinezza.
Il risultato è netto: tra le generazioni si crea un clima di sostanziale concorrenza con il netto svantaggio di quelle più giovani; oppure – ed è l’altra faccia della medaglia – si crea un clima di vischiosità che produce confusione e alla fine follia. Gli adulti attuali – così poco adulti – alla fine dei conti amano la loro giovinezza più dei loro figli. All’immaturità degli adulti, al loro giovanilismo, è poi pure legata l’attuale inefficacia della trasmissione della fede.
Perché con la cresima i ragazzi si allontanano dagli ambienti ecclesiali? Perché c’è tanta ignoranza biblica tra di loro? Perché «l’appartenenza confessionale e la pratica religiosa diventano sempre più tratti di una minoranza e i giovani non si pongono “contro”, ma stanno imparando a vivere “senza” il Dio presentato dal Vangelo e “senza” la Chiesa»? A mio avviso, questi ragazzi e questi giovani che stanno imparando a vivere senza il Dio presentato dal Vangelo e senza la Chiesa, sono in verità figli di adulti che non hanno dato più spazio alla cura della propria fede cristiana: hanno continuato a chiedere i sacramenti della fede, ma senza fede nei sacramenti; hanno portato i figli in Chiesa, ma non hanno portato la Chiesa ai loro figli; hanno favorito l’ora di religione ma hanno ridotto la religione a una semplice questione di un’ora. Hanno chiesto ai loro piccoli di pregare e di andare a
Messa, ma di loro neppure l’ombra, in chiesa. E soprattutto i piccoli non hanno colto i loro genitori nel gesto della preghiera o nella lettura del vangelo (cfr. Castegnaro, Garelli, ecc.). Hanno imposto, questi adulti, una divergenza netta tra le istruzioni per vivere e quelle per credere, una divergenza che, pur non negando direttamente Dio, ha avallato l’idea che la frequentazione della vita in parrocchia e all’oratorio, e pure l’ora di religione, fosse un semplice passo obbligato per l’ingresso nella società degli adulti e tra gli adulti della società. Più semplicemente: se Dio non è importante per mio padre e per mia madre, non lo può essere per me.
Se mio padre e mia madre non pregano, la fede non c’entra con la vita. Se non c’è posto per Dio negli occhi di mio padre e di mia madre, non esiste proprio il problema del posto di Dio nella mia esistenza. Anche la fede è una questione degli occhi.
Ebbene che cosa vedono i nostri giovani e i nostri ragazzi davanti a loro? Adulti che pregano? Adulti che leggono il Vangelo? Adulti che orientano la loro esistenza secondo Gesù? Adulti felici di essere cristiani? Vedono solo adulti disperati di non essere più giovani…adulti malati di immaturità… Adulti sempre meno radicati nella fede, in quanto per loro non c’è altro Dio che la giovinezza. Si è così interrotta l’alleanza tra parrocchia e famiglia: da una parte vangelo, preghiera, solidarietà; dall’altra bilancia, yogurt, diete, palestra, bisturi e 10 creme anti-age… Da tanto tempo gli adulti chiedono solo a queste cose la felicità… La teoria del catechismo non trova pertanto più riscontro nella pratica degli adulti e questo fatto riduce l’esperienza della fede a una cosa “da bambini” e finché si è bambini.

3. Il compito davanti a noi
Di fronte a questa situazione, ritengo che nostro compito sia quello di aiutare gli adulti a ritrovare la strada verso casa, cioè verso quella che è loro vera casa: ovvero la responsabilità generativa ed educativa. Oggi più nessuno parla positivamente di tutto questo e cioè di quanto sia umanamente arricchente l’esperienza di vivere sino in fondo la propria adultità, la propria responsabilità adulta.
Direi di più: di quanto sia bello, di quanto sia “divino” (se è vero che il Dio cristiano per Sé ha scelto, tra le cose umane, solo la dimensione della paternità) essere adulti fino in fondo. Questo, scusate, è l’umanesimo che ci manca! Per cui ritengo che dobbiamo affrontare la questione di cosa significa essere e vivere da adulto. La mia risposta è la seguente: l’adulto è un ponte, un allenatore ed un poeta.

Essere ponte. Essere adulto implica l’essere come un “ponte” tra i figli e il mondo. Più precisamente questa azione di “pontefice” comporta, da parte dell’adulto, saper dare risposte: saper rispondere del mondo ai figli e quindi dei figli al mondo. Poter mediare il mondo ai figli sottende però l’accettazione, da parte dell’adulto, della condizione umana per quella che è, senza risentimenti né rivolte. Comporta accettare la verità per la quale la piena umanità di ognuno nasce nel momento in cui ci alleiamo con le leggi elementari della vita e smettiamo di collocarci giovanilisticamente contro di esse. Il mondo non è mai la meta ideale delle nostre vacanze; cattolicamente, questo mondo non è il paradiso.
È dunque decisiva la capacità dell’adulto, scrive acutamente Francesco Stoppa, di «amare la vita per quello che è e non come location ideale dei propri sogni o bisogni; la vita nel suo connotato più reale, nella sua irriducibilità a qualsivoglia aspettativa narcisistica». Questo è l’unico mondo che abbiamo: fare da ponte tra esso e figli significa ogni volta trasmettere la fondamentale certezza che quella umana è una vita vivibile e amabile non a dispetto del fatto che abbia leggi e fondamenta, ma proprio perché ha leggi e fondamenta, alleandosi con le quali ciascuno può diventare autore e attore della propria esistenza.
Consideriamo ora l’altro verso della responsabilità: quella verso i figli nei confronti del mondo, quella che alla fine permette l’esecuzione completa della genitorialità, perché alla fine si tratta sempre di donare al mondo dei figli autonomi. Che cosa significa ora rispondere dei figli rispetto al mondo? Significa, per l’adulto, assumere la piena consapevolezza del fatto che il futuro – che i figli fisicamente oltre che simbolicamente rappresentano – è anche il tempo della sua scomparsa.
Significa riflettere sul fatto che i tuoi figli non sono figli tuoi… Chi non è capace di fare spazio alla propria mortalità, non è capace di educare sul serio. Non è capace di pensare il momento in cui i figli saranno veramente soli e quindi bisognosi di spalle robuste, che solo un’educazione all’altezza di se stessa, per quanto faticosa, può assicurare. Si mettono al mondo dei figli, infatti, perché si è consapevoli del proprio destino mortale ed esattamente per questo essi non sono per chi li genera e devono poter stare al mondo, grazie a chi li genera certo, ma anche senza chi li genera.

Essere allenatore. Quello dell’allenatore è un mestiere, si sa bene, quanto mai difficile, come ci insegna per esempio la cronaca calcistica. Ebbene, questo mestiere ci può introdurre dentro quella che è la verità dell’amore: amore non è (solo) preoccuparsi, amore non è (solo) procurare cose, amore non è (solo) risparmiare fatica, amore non è (solo) volere bene. Amare è volere il bene.
Amare è volere il bene di chi ci è affidato come figlio o come atleta. Consapevole di ciò, l’allenatore non può perciò tenere in grande conto della permalosità di tutti i suoi giocatori, non può sottostare a tutti i loro capricci, anche quando si tratta di giocatori famosi e ricchi. Li deve spronare a lavorare sodo, a prepararsi alla sfida, alla gara. Tiene così un occhio attento alle dinamiche di ogni singolo sportivo e un altro attento alla squadra e al torneo cui essa partecipa. L’allenatore è uno che sa tenere salda la differenza tra volere bene e volere il bene ed è su questa base che egli sa reggere al e il conflitto possibile con i suoi atleti.
Solo così, reggendo questa differenza, è possibile esercitare quella responsabilità adulta nei
confronti dei piccoli, i quali, in un modo o nell’altro, prima o dopo, debbono pur venire in contatto con quegli altri che non appartengono al gruppo di coloro che sono in permanente atteggiamento di adorazione nei suoi confronti.
Anche nelle relazioni con gli altri ci sono leggi da assimilare e da accogliere con benevolenza e che tocca proprio all’adulto mediare. La prima di esse è che non si può avere tutto, non si può volere tutto, non si può essere tutto. Non siamo Dio! E nemmeno il re dell’universo. Tutto ciò contrasta con la perversione educativa più pericolosa della mancata crescita degli adulti: la pretesa da parte dei genitori di essere amati dai loro figli. L’antica sapienza biblica chiede ai figli di onorare i propri genitori, non di amarli. Amare qualcuno significa sempre volere il suo bene, volere che l’altro possa essere in quanto altro; significa attendere, dare tempo, fidarsi e dare fiducia mentre il figlio faticosamente impara cosa voglia dire poter “dire io”.

Essere poeta. Poter dire “io” è ciò che ci fa veramente “umani”. Nessuno può dire “io” come lo dico appunto io. Nessuno lo può ora, lo ha potuto ieri, lo potrà domani. In questo non c’è nessuno che possa fare le mie veci. Ciascuno è una prospettiva indiscernibile sul mondo; resta un mistero raccolto in se stesso, senza causa e senza possibilità di replica; siamo uno spettacolo unico. Ciò che definisce tutto questo è la chimica del desiderio, il fatto che percepiamo sempre uno scarto, una differenza, uno iato dentro di noi. Questa è la vita umana: siamo segnati da mancanza, da altro. Noi umani non siamo “un tutto pieno”.
Una larga porosità ci costituisce e ci mantiene in essere. Pensiamo a questo semplice fatto: è certo vero che siamo tutti qui fisicamente, in questo posto, ma non è forse altrettanto vero che non siamo tutto qui; che cioè “il tutto di noi” non è qui? Chissà con la mente dove si trova ciascuno di voi….
Una profonda mancanza dunque ci segna dall’inizio e ci segna sino alla fine. Ora l’essenziale dimensione e dinamica del desiderio umano trovano qui la loro ragione d’essere. Ebbene, in un tempo in cui la grande macchina del mercato vuole persone che credono solo in ciò che si vede e ultimamente si vende, l’adulto-poeta è colui che sa attivare nel bambino, nel ragazzo, nel giovane la capacità di vedere ciò che non si vede e di “apprezzare” (letteralmente: dare un prezzo, un valore a) ciò che non si vende; è colui che sa attivare in loro le antenne del desiderio.
Per questo egli si prenderà cura che ogni nuovo cucciolo d’uomo possa entrare in una relazione feconda con la dinamica autentica del desiderio umano: in quanto umani siamo impastati con la mancanza, con la finitezza, con la trascendenza. Siamo sempre “oltre”, c’è sempre uno spazio insaturo dentro di noi, che va conosciuto amato e coltivato. E tutto questo va attivato nei giovani grazie alla poesia, al cinema, al teatro, alla letteratura, alla musica, all’arte, alla contemplazione del cosmo, in cui la vita si dona a noi non solo come qualcosa da consumare ma come un punto in cui l’invisibile irrompe nel visibile.
Come è commovente al riguardo quella pagina del vangelo in cui Gesù, incontrando colui che la tradizione da sempre indica come il giovane ricco, dopo avergli ricordato i precetti del decalogo e averlo fissato con uno sguardo di predilezione, gli comunica l’ultimo necessario passaggio per poter giungere ad una vita eterna. Gli raccomanda di vendere le sue ricchezze e poi di mettersi alla sua sequela. Gli chiede di fare spazio vuoto nella sua vita e nella sua anima. Gli ricorda la mancanza. Al giovane ricco, infatti, manca la mancanza. L’avere troppi beni costituisce un ostacolo.
Siamo posti quasi davanti ad un piccolo paradosso: per Gesù è necessario possedere la mancanza, mentre possedere beni risulta una situazione mancante, incapace cioè di indirizzare una vita umana alla piena destinazione di sé.