“Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?”.
Può accadere che una pecora si smarrisca, o cada in un dirupo, e così rischi di morire ad opera di bestie selvagge, o delle ferite, o della fame.
Il pastore della parabola lascia le altre novantanove nel deserto e va a cercarla con grande apprensione. Perché lo fa? Perché le ama tutte. E ogni pecora, se è amata, va cercata.
Come non pensare alla strofa del Dies irae: “Signore, a forza di cercarmi ti sei seduto stanco”.
Capiamo, infatti, che Gesù sta parlando dell’amore di Dio per ciascuno di noi. Un amore che non gli dà pace e lo spinge a venire a cercarci continuamente.
Gesù, però, parla anche di noi. Di ciascuno di noi che ha un compito “pastorale” nei confronti di altri che sono affidati alle sue cure: parroco verso i fedeli; genitori verso i figli; catechisti verso i catechizzandi; docenti verso i discenti; maestri verso i discepoli; formatori verso i formanti; allenatori verso gli allenati; amministratori verso gli amministrati; superiori verso i sottoposti; ecc.
Spesso, infatti, agiamo diversamente dallo stile indicato da Gesù. Quando una pecora si perde, assaliti dalla paura ammoniamo le altre: “State attente, restate nel recinto, perché fuori ci sono i lupi, i nemici del gregge. Io vi proteggo stando qui con voi, ma voi non ripetete l’errore della pecora che si è perduta!”.
E così il giorno successivo un’altra pecora si smarrisce. Ma noi ripetiamo gli stessi ammonimenti e restiamo a guardia del recinto.
Poi un’altra se ne va, poi un’altra ancora.
Così finisce che la situazione si inverte: restiamo con una sola pecora, mentre le altre novantanove se ne sono andate, perdute perché abbiamo avuto paura, perché eravamo gelosi del gregge, perché non avevamo coraggio né audacia.
Con la parabola, invece, Gesù, invita a cercare, cercare senza arrendersi.
Don Michele Fontana