Alcuni scribi e farisei chiedono a Gesù un segno: se è veramente figlio di Dio, deve mostrarlo in modo chiaro e ineluttabile. Egli risponde loro che “Nessun segno sarà dato se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra”.
A chi ascolta questo brano, la richiesta può sembrare pretestuosa e presuntuosa. Siamo pronti a giudicare l’atteggiamento degli scribi e farisei, dimenticando che l’episodio è stato inserito nella narrazione evangelica, e oggi proclamato in tutte le Messe, perché parli anche a noi, parlando di noi.
Come quei scribi e farisei, infatti, può capitarci di pretendere segni da Gesù: non soltanto quando cerchiamo sensazionalismo, peregrinando tra santuari, veggenti, esorcisti, guaritori, ecc.; ma soprattutto quando pretendiamo che Egli intervenga per evitarci difficoltà e sofferenze. Non è, forse, anche questa una richiesta di un “segno” della sua potenza?
Qualora le preghiere ci sembra non siano esaudite, le facili deduzioni sono: Dio non esiste; esiste ma è cattivo; sono io il cattivo; chiedo una cosa cattiva.
La risposta di Gesù agli interlocutori, invece, dischiude altre prospettive di comprensione. Attraverso essa, infatti, garantisce il suo intervento, ma al modo di Dio: come avvenuto per Giona, che non è stato risparmiato dall’essere divorato dal pesce, ma è stato strappato via dal ventre del cetaceo. Lo stesso modo di agire che il Signore avrà nei suoi confronti: non lo risparmierà dall’essere divorato dalla Croce, ma lo strapperà via dal ventre della morte.
Gesù rivela così il suo “segno” , il suo modo di intervenire nelle nostre avversità: qualche volta non potrà risparmiarci dall’essere divorati dalle sofferenze, ma di certo ci strapperà via dal loro ventre.
Don Michele Fontana