Mentre Gesù attraversa un villaggio della Galilea, viene investito dalle grida disperate di dieci lebbrosi che implorano il suo aiuto.
La croce dei malati di lebbra, allora come purtroppo adesso in molte parti del mondo, era appesantita oltre che dalla sofferenza fisica, dallo stigma sociale composto da disprezzo, emarginazione, giudizio e pregiudizio.
Gesù non si sottrae alle richieste e li invita a presentarsi ai sacerdoti, incaricati di certificarne la guarigione. Non dice altro, ma quei poveri disperati, benché non avvertano alcun segno di miglioramento, si fidano. Vanno in cerca di un sacerdote e, mentre sono in cammino sentono che qualcosa sta succedendo nel loro corpo: sono guariti!
Dei dieci, però, uno solo decide di tornare per ringraziare. San Luca sottolinea che è un samaritano, una persona ritenuta eretica, lontana dal vero culto e dalla vera fede.
Quest’epilogo induce anche noi, oggi, a marcare nella nostra vita la distinzione tra ringraziare e non ringraziare; pretendere tutto come dovuto, o accogliere tutto come dono.
I dieci guariti sono felici per aver recuperato la salute e poter uscire da quella quarantena forzata che li escludeva dalla comunità. Ma tra loro uno solo alla gioia aggiunge la gratitudine, questo perché in quel miracolo riesce a cogliere la bellezza di sentirsi amato.
Il ringraziamento comincia dal riconoscersi preceduti da un gesto d’amore. Siamo stati pensati prima che imparassimo a pensare; amati prima che imparassimo ad amare; desiderati prima che nel nostro cuore spuntasse un desiderio.
Quando ringraziamo riscopriamo l’amore come forza che regge il mondo, “move il sole e l’altre stelle” (Dante).
Non tralasciamo di ringraziare.
Se siamo portatori di gratitudine, il mondo diventa migliore e i nostri giorni si tingono di speranza.
Don Michele Fontana