“Avete inteso che fu detto: Non ucciderai … Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio“.
Questo detto di Gesù, che apre il Vangelo di oggi, lo abbiamo già ascoltato nella proclamazione liturgica qualche giorno fa. Tuttavia, se la Chiesa continua a proporlo significa che è il caso di soffermarsi ancora una volta a meditare.
Nel racconto della Genesi, Dio parlando con Caino descrive l’ira come un cane feroce accovacciato alla porta del cuore, pronto a svegliarsi e mordere chiunque si avvicina: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? … Se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta” (Genesi 4,6-7).
San Paolo allarga questa condizione a ogni uomo. Scrivendo agli Efesini, riconosce che l’ira è un sentimento che accomuna tutti, da cui ciascuno deve evitare di lasciarsi trasportare per non offrire spazio al peccato: “Non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date spazio al diavolo” (Efesini 4,27).
Come suggerisce il detto di Gesù, l’ira è un sentimento che si può associare al desiderio di uccidere, anche solo l’amicizia, aggredendo, denigrando o comportandosi come se l’altro fosse morto.
Nelle amicizie, nella vita dei gruppi, e in genere in ogni rapporto che viviamo, tutti abbiamo qualcosa che, in modo più o meno accentuato, ci fa adirare, perché tutti abbiamo intolleranze, debolezze o qualche vecchia ferita non completamente rimarginata. Semplicemente tutti, prima o poi, sbagliamo o subiamo lo sbaglio di qualcuno. In ogni relazione, in ogni situazione, quindi, quel “cane” è sempre pronto a svegliarsi e assalire il nostro cuore per aggredire gli altri.
Spesso il vero motivo per cui ci adiriamo non è ciò che sta accadendo, ma qualche altra causa, apparentemente dimenticata. La situazione che innesca la miccia e ci fa esplodere è la classica goccia che fa traboccare il vaso. Conoscere i veri motivi della nostra ira, e lavorarci sopra, illuminati dalla Parola del Signore e con il supporto della sua Grazia, di certo è l’unica arma per vincerla.
Analizzando, inoltre, le manifestazioni che assume la nostra collera, notiamo che si esprime in modi differenti.
C’è chi dà sfogo all’ira in modo incontenibile e con azioni smisurate rispetto all’accaduto.
C’è chi dirotta le manifestazioni di rabbia su altre persone, come i genitori che picchiano i figli, i mariti che maltrattano le mogli, i ragazzi che bullizzano i coetanei, i capi ufficio che fanno mobbing sui dipendenti, perché non hanno forza e talvolta neanche coraggio di affrontare disagi da cui si sentono oppressi.
Una forma insidiosa di “espressione” dell’ira è quella “non espressa”. Sembra un paradosso, ma è reale ed efficace. Si tratta dell’aggressività passiva fatta di comportamenti posti in essere per punire qualcuno provocando in lui sensi di colpa con mutismi e freddezza.
Così può capitare che in un matrimonio, nelle situazioni d’incomprensione e divergenza, invece di seguire la via difficile e tortuosa del dialogo sincero, si decide di percorrere l’autostrada agevole dell’indifferenza mascherata. In questo modo si risparmia la risposta aggressiva immediata, ma si finisce con alimentare freddezza, mutismo, risentimento. Pian piano tutto crolla in un assordante silenzio, nascosto esternamente anche con post social che mostrano una falsa affinità coniugale.
In tempo di Quaresima, e soprattutto in un venerdì dedicato all’astinenza, credo sia opportuno che ciascuno si soffermi per analizzare quali siano le cause che risvegliano il “cane” dell’ira nelle sue relazioni.
Don Michele Fontana