Come sappiamo, la nascita di Giovanni Battista fu preannunciata da un angelo che apparve a suo padre Zaccaria mentre officiava nel Tempio.
Lui ed Elisabetta erano naturalmente impossibilitati ad avere figli, sia perché la moglie era sterile, sia perché entrambi erano molto avanti negli anni. Proprio per questo motivo Zaccaria esitò a credere al messaggio divino. Una mancanza di fede che gli costò la parola: rimase muto fino alla nascita del figlio.
L’angelo indicò allo sposo anche il nome da dare al nascituro: Giovanni, che significa dono di Dio.
Quando Elisabetta diede alla luce il figlio, i vicini e i parenti proponevano di chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. Dare il nome del padre, usanza tipica dell’epoca, significava attestarne chiaramente la paternità.
Ma la madre si oppose: “No, si chiamerà Giovanni”. Allora domandarono con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: “Giovanni è il suo nome” (Lc 1,56-66).
La scelta non fu dettata da semplice obbedienza alle indicazioni dell’angelo, ma manifestava una professione di fede dei genitori. Nel nome “Zaccaria”, infatti, si voleva ribadire la paternità umana del bambino; nel pretendere, invece, che si chiamasse “Giovanni“, loro intendevano sottolineare il contributo divino: quel bimbo era dono di Dio.
Ogni volta che avrebbero chiamato il figlio, ogni volta che lo avrebbero nominato o indicato ad altri, si sarebbero ricordati che non era frutto delle loro “sterili” capacità umane, ma dono di Dio che si rinnovava giorno per giorno.
La lettura del Vangelo invita anche noi a dare nome “Giovanni” al frutto di ogni nostra attività.
Spesso siamo, infatti, tentati a dare il nostro nome, a prenderci meriti, gloria e paternità per gli esiti del nostro lavoro, dimenticandoci che ogni cosa è soprattutto dono di Dio.
Ciò è riferibile non soltanto ai figli naturali, ma anche ai figli “spirituali” come possono essere i fedeli per un sacerdote; i parrocchiani per un parroco; i ragazzi per un catechista, un Capo Scout o un animatore; gli alunni per un docente; gli sportivi per un atleta, ecc..
Ciò è riferibile anche a ogni ogni risultato dei nostri sforzi: prima ancora che essere merito nostro, è vero e proprio dono di Dio da riconoscere.
Don Michele Fontana