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Lettera del Vescovo per il mese di novembre

Viventi su questa terra e nell’altra vita

Carissimi presbiteri, laici e persone di vita consacrata!

1. Verso il mese di novembre, l’ultimo dell’anno Liturgico.
Si avvicina il mese di novembre, che sarà aperto da due rilevanti ricorrenze cristiane: la solennità di tutti i santi, nella quale ci ralle- griamo tutti nel Signore, accompagnati dagli Angeli e dai Santi; la commemorazione di tutti i fedeli defunti, per la quale ci viene ricordato che «come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo/ riavranno la vita» (1Ts 4,14; 1Cor 15,22). Mentre, quale comunità dei credenti, innalziamo a Dio la nostra preghiera di lode  e di ringraziamento, v’invito tutti a riflettere brevemente sul senso di queste due importanti celebrazioni dell’anno liturgico, che volge ormai alla sua ciclica conclusione. Spero possa essere per tutti una profonda e illuminante riflessione, soprattutto nei momenti di cate- chesi, che vorremmo promuovere nelle par- rocchie e nei luoghi di culto. E spero che tale breve meditazione aiuti tanti nostri fratelli e sorelle a non omologarsi facilmente a feste e pratiche che nulla hanno a vedere con la tra- dizione e la devozione popolare cristiana, ma echeggiano soltanto saghe e miti di fantasmi e pratiche di sapore macabro e venale.

2. Due feste liturgiche che caratterizzano il “nostro” mese di novembre.
Le due feste liturgiche, che aprono la stagione fredda dei morti, non sono semplici eventi cronologici, magari per com- memorare le anime dei nostri cari trapassa- ti, oppure per fare lutto e per piangerli nella visita al camposanto, bensì due veri e propri appelli della Chiesa a riscoprire la nostra fede nel- le cose ultime. Appelli per gustare, nel silenzio che percepiamo nell’ambiente e nel cadere fragile delle foglie dagli alberi, il senso ge- nuino del nostro essere Chiesa, cioè l’essere “assemblea di tutti i santi”. Tutti “santi”, in quanto battezzati, i quali si alternano quag- giù sulla terra, nelle vicende del nascere e del morire, ma sono sempre tra loro in relazione, anzi in profonda comunione: la comunione dei santi. È questo il genuino senso cristiano della Festa di tutti i santi e della commemorazione di tutti i fedeli defunti.

3. Svégliati, tu che dormi,/ risorgi dai morti/ e Cristo ti illuminerà (Ef 5,14).
Giovanni Pascoli, nella sua poesia “Novembre” – contenuta nella rac- colta Myricae, del 1891 -, descrive così questi giorni tipici dei primi di novembre: “Silenzio, intorno: solo, alle ventate,/ odi lontano, da giardini ed orti,/ di foglie un cader fragile. È l’esstate,/ fredda, dei morti.
Sì, nell’aria luminosa come fosse piena di gemme e nei rari momenti in cui splende il sole, tu quasi cerchi gli albicocchi in fiore; ma poi prendi improvvisamente atto che i rami sono ormai secchi, che i profumi sono sva- niti e che il suono dei nostri piedi sulla terra sembra farci percepire soltanto le cavità di coloro che ormai sono sepolti. È novembre, per il poeta è soltanto l’estate fredda dei morti. Ma secondo l’apostolo Paolo nella Lettera ai cristiani di Efeso, per noi, è la stagione di coloro che ricordano di essere stati sepolti con Cristo nel Battesimo e, con lui, di essere con-risorti. Dicono i commentatori che probabilmente il v. 14 della Lettera agli Efesini è un inno battesimale, cioè un inno che la comunità cristiana cantava in occasione del Battesimo. Ora, il Battesimo consiste proprio in questo: “Svègliati, o tu che dormi, dèstati dai morti». La condizione dell’essere umano lontano da Dio è condizione di morte e di sonno, tipica di chi non ha coscienza della re- altà di certe cose, non si rende conto di quello che il mondo e la vita sono veramente. Allora, tu che sei in questa tenebra, indecisione, in- capacità di capire, svègliati, e Cristo ti illumi- nerà; risorgi, Cristo ti illuminerà: vivi alla presenza di Dio, il quale è capace di purificare, di sciogliere i nodi, le cattiverie, le ipocrisie che ci costruiamo come autodifesa, che ricorda a chi dorme che è l’ora di svegliarsi.

4. Svegliamoci: novembre non rattrista i cristiani.
Quando visitiamo le tombe o le ceneri dei nostri cari, non possiamo persistere nelle lacrime e nel dolore. Se ci rattrista la necessità di averli perduti, ci consoli la certezza che essi sono dei battezzati, e quindi si risveglieranno con Cristo nell’ultimo giorno. Ecco perché, per la Chiesa, novembre non può essere il mese dello sconforto, bensì il periodo del- la mesta gioia. La mesta gioia di chi, mentre sta ancora sulla faccia della terra, spesso solo o isolato, percepisce che il senso di solitudine riguarda soltanto l’aspetto quantitativo della propria esistenza. Solo dal punto vista del conteggio dei mesi, infatti, è subito sera, come nel 1942 scriveva Salvatore Quasimodo. Chi, invece, conta il tempo dal punto di vista dell’eterno, che è Dio, percepisce di essere sta- to innestato per sempre nella comunione tra vivi e trapassati e perciò sente davvero che nessuno di noi, anche se solo o in solitudine, nessuno lo è mai sul cuore della terra/ trafitto da un raggio di sole:/ ed è subito sera”. Noi cristiani non siamo una somma di solitudini, bensì una comunione di santi, vivi e defunti; o meglio, siamo una comunione di battezzati, intercomunicanti in quanto tutti innestati, per il Battesimo, come tralci sulla vite che è Cri- sto: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così nean- che voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Se qualcuno non rimane in me viene gettato fuori come il tralcio e si dissecca; poi lo raccolgono, lo si getta nel fuoco e lo brucia- no» (Gv 15,4b-6).

Tutti i santi, cioè tutti in azione per realizzare le Beatitudini.
Questo sguardo sereno sul nostro futuro, non di morte, bensì di vita, ci consente di percepire a quale grande futuro siamo tutti chiamati. Se guardiamo a questo nostro futuro, non possiamo che percepirci Santi. Le beatitudini (Mt 5,1-12a) illuminano la solennità del primo novembre: Ognissanti. La Chiesa, infatti, anche quella terrestre nella quale siamo inseriti, è una comunione dei santi, come professiamo nel Credo, o anche Simbolo niceno-costantinopolitano: «Credo… la comunione dei santi»; cioè credo la comunione tra le persone sante nel senso di battezzate; inoltre, credo la comunione con le cose sante, ovvero credo il pane e il vino eucaristico e tutte le altre azioni sacramentali, che efficacemente realizzano quanto viene significato mediante i segni (pane, vino, acqua, olio profumato…).  Il primo novembre, perciò, la santa madre Chiesa ci fa celebrare la solennità di tutti i santi, per la quale gioiscono con noi, viventi su questa terra, anche gli Angeli e i Santi del paradiso, che lodano con noi il Figlio di Dio. Un’unica festa, dunque, per celebrare i meriti e la gloria di tutti i Santi. Ecco il senso di quella moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua, di cui parla la visione profetica del veggente di Patmos nell’Apocalisse (cf Ap 7,2-4.9-14). Questa è una moltitudine atipica (se guardata con categorie umane); è, infatti, costituita da affamati, assetati, privi dei mezzi essenziali di sussistenza, piagati dalla vita fino alle lacrime, abbandonati, traditi, assassinati, violentati, reclusi… Perché questa moltitudine è da chiamare Beata?

5. “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15).
Quest’umanità dolente non è convocata per leccarsi le ferite o per attendere inerte e apatica la morte, magari anticipandola in qualche modo, o addirittura disponendo di non voler essere più curati, o, peggio ancora, domandando aiuto per agevolare il proprio suicidio! Questa moltitudine di scartati e di ultimi, infatti è, solo apparentemente derelitta e in difficoltà. Piuttosto, è il segno che siamo nel compimento del tempo, cioè il Regno di Dio sta venendo e, seppur lentamente, ci sta facendo comunque risorgere dalle piaghe e dalla morte, dalla paura e dal terrore, dalla violenza e dalla guerra, dalla corruzione e dalla criminalità. Ecco perché, come celebriamo il 2 novembre, la liturgia cristiana dei funerali ci si propone non tanto come un momento di tristezza, bensì come una celebrazione gioiosa del mistero pasquale di Cristo Signore. Ecco perché, nelle esequie – chieste dai sopravvissuti per tutti, anche per coloro che ci hanno fatto del male o ci hanno reso l’esistenza inutile o più difficile -, la Chiesa prega che tutti i suoi figli, incorporati per il Battesimo a Cristo morto e risorto, passino con lui dalla morte alla vita e, debitamente purificati nell’anima, vengano accolti con i Santi e gli eletti nel cielo. Mentre il corpo, o le ceneri, giacciono inerti nella terra, tutti aspettiamo la beata speranza della venuta di Cristo, cioè la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. La Conferenza Episcopale Italiana ha stabilito come adattamento liturgico al Rito delle Esequie, quanto segue: «È opportuno che nella celebrazione delle esequie  i fedeli siano invitati a professare la propria fede con la recita del Credo, ad esempio dopo la lettura della parola di Dio durante la Veglia nella casa del defunto, o presso la tomba, o anche in altro momento adatto, a giudizio del sacerdote celebrante». Invito pertanto i parroci, chiamati in prima persona a preparare e ordinare la celebrazione esequiale, a non dimenticarsi di questo, spiegando il senso della professione di fede e formando i fedeli a saper proclamare con fede anche dinanzi alla morte: “Io credo: Il Signore è risorto e vive, e un giorno anch’io risorgerò con lui”.

6. Professiamo la nostra fede.
Crediamo davvero tutto questo, carissimi? Oppure ci stiamo omologando a coloro che sono senza speranza e che, di fronte ai tanti soprusi e attentati al creato e alle vite umane, disperano che qualcosa  possa  effettivamente  cambiare? Ci omologheremo addirittura a coloro che abbandonano la nave, smettono di agire e lottare perché cambi la faccia di questo mondo? Ci vuole speranza, la speranza cristiana e il cambiamento avviene non perché tutto resti come prima! Noi non vogliamo arrenderci all’amara considerazione di Tomasi di Lampedusa ne Il gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Piuttosto, noi vogliamo e operiamo perché tutto cambi, in quanto non vogliamo che tutto rimanga com’è, bensì che ritorni com’era nel momento in cui tutto fu progettato da Dio Padre e redento dal Figlio incarnato. Giocano l’uno di fronte all’altro due profeti di due mondi differenti: il vecchio e il nuovo. Il phàrmakon contro la vuota retorica del sovvertimento facile è un vecchio abbaglio ideologico, che ci porrebbe sotto l’effimera forza dello sviluppo cieco, del progresso immaginato e non reale. Il nostro vero farmaco è, invece, Gesù Cristo, nostro medico celeste: il suo farmaco di guarigione è la salvezza, totale, radicale, profonda, reale. La salvezza non è soltanto una sospensione della pena, ma libertà, guarigione, conoscenza, vita nuova, dopo la caduta nel fossato della colpa, della malattia e della morte. Come ricorda la mistica Giuliana di Norwich, il primo Adamo cade in un fosso perché non sapeva come oltrepassarlo e non riusciva a uscirne. Il secondo Adamo, Gesù Cristo, invece, è venuto ad aiutare l’essere umano ad uscire dalla morte e dal peccato, non a punirlo per sempre. «Hai anche un medico, non solo un fabbro», scrive Clemente Alessandrino nel secondo capitolo del Protreptikós – l’Esortazione -. Passando in rassegna l’Olimpo degli antichi dei, trova anche un medico, Asclepio: «… e il medico era avaro. Si chiamava Asclepio (o Esculapio). L’intento di Clemente è chiaro, se rammentiamo che Asclepio veniva citato, insieme ai Dioscuri e ad Eracle, tra i cosiddetti «salvatori del mondo». Tutti i vecchi dei guaritori sono soltanto contraffazioni dell’unico vero essere che porta salvezza: Gesù Cristo, Colui che ci fa stare veramente bene, cioè ci salva, anima, corpo e spirito. Non è questo il significato della nostra Pasqua, che cioè Cristo, nostra Pasqua, è immolato (1Cor 5,7b-8a)?
Nella nostra società, definita da molti studiosi postmoderna o addirittura del transumano – tutta incentrata sulla costante ricerca di supporti per il miglioramento della condizione umana attraverso tecnologie finalizzate a facilitare la vita, come l’eliminazione della vecchiaia e il potenziamento delle capacità intellettuali, fisiche o fisiologiche dell’uomo – sembra non ci sia più posto per la morte che inesorabilmente tronca, volenti o nolenti, la vita. Mentre nella tradizione cristiana essa era ritenuta come compimento naturale  di un percorso, finis viae, oggi i progressi della scienza medica e la diminuzione del fattore religioso hanno progressivamente portato ad un esilio della morte e dei suoi segni: subito dopo il decesso il defunto diventa “ingombrante”; per questo corpo inanimato non c’è posto nel consorzio dei vivi, per i cortei funebri nel caotico traffico urbano; i familiari non se la sentono di vivere faccia a faccia con un morto per qualche ora, dà quasi scandalo offrire lo spettacolo della morte. Non è un caso che stia prendendo piede, anche nelle nostre città, l’abitudine di collocare le salme nelle funeral homes dove i corpi – il cui stato di decomposizione spesso è ritardato grazie a prodotti chimici – sono conservati in saloni accoglienti dove i familiari possono ricevere le visite di amici e conoscenti.
La nostra attività pastorale, soprattutto di na- tura catechetica, non può non tener conto di tutto questo! Al pessimismo derivato dalla nostra società, che si misura con i parametri dell’efficientismo e del materialismo, la Chiesa ha il compito di offrire una visione pasquale del transitus: Cristo è vincitore della morte e sorgente della risurrezione. Con questo intendo sensibilizzare i sacerdoti in cura d’anime  a spiegare ai fedeli, soprattutto nelle liturgie esequiali – che sono delle vere e proprie opportunità di annuncio, alle quali prendono parte per solidarietà ai familiari del defunto anche persone poco vicine o addirittura lontane dalla vita della comunità cristiana – la necessità del suffragio per i defunti. Per le loro anime, durante la celebrazione eucaristica, è offerto un sacrificium placationis, grazie al quale il defunto è purificato dai suoi peccati. Ai fedeli chiedo di non trascurare questo obbligo gravissimo della pietà cristiana: offrire una Santa Messa in suffragio è altissima opera di carità. Per comprenderne meglio il senso credo sia opportuno riportare quanto leggiamo nel secondo libro dei Maccabei: «Il giorno dopo, quando ormai la cosa era diventata necessaria, gli uomini di Giuda andarono a raccogliere i cadaveri per deporli con i loro parenti nei sepolcri di famiglia. Ma trovarono sotto la tunica di ciascun morto oggetti sacri agli idoli di Iamnia, che la legge proibisce ai Giudei; fu perciò a tutti chiaro il motivo per cui costoro erano caduti. Perciò tutti, benedicendo l’operato di Dio, giusto giudice che rende palesi le cose occulte, ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato. Il nobile Giuda esortò tutti quelli del popolo a conservarsi senza peccati, avendo visto con i propri occhi quanto era avvenuto per il peccato dei caduti. Poi fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, compiendo così un’azione molto buona e nobile, suggerita dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per     i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per  i morti, perché fossero assolti dal peccato» (2Mac 12,39-45).
Non dimentichiamo l’appello che Monica, mamma di Agostino, fece ai figli sul lido di Ostia prima di rendere l’anima al suo creatore e signore: «Seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all’altare del Signore» (Agostino, Confessioni XI, 11,27).
A livello parrocchiale, si dedichino nel mese di novembre, brevi omelie giornaliere, degli incontri specifici sul tema della morte e del suffragio per i defunti, magari a partire dal Rito delle Esequie e dall’abbondanza della Parola di Dio in esso contenuta, secondo il metodo tanto caro ai Padri della Chiesa: la mistagogia, al fine di giungere ad una conoscenza-esperienza sempre più profonda, piena, fruttuosa del mistero pasquale e della sua traduzione nella pratica della vita.

7. Un canto della liturgia ortodossa per la notte paquale.
O danza mistica! O festa dello Spirito!
O Pasqua divina che scende dal cielo sulla terra
e dalla terra sale di nuovo al cielo!
O festa nuova e universale, assemblea cosmica!
Per tutti gioia, onore, cibo, delizia:
per mezzo tuo sono state dissipate le tenebre della morte,
la vita viene estesa a tutti,
le porte dei cieli sono state spalancate.
Dio si è mostrato uomo
e l’uomo è stato fatto Dio.
Entrate tutti nella gioia del Signore nostro;
primi e secondi, ricevete la ricompensa;
ricchi e poveri, danzate insieme;
temperanti e spensierati, onorate questo giorno:
abbiate  o no digiunato,
rallegratevi oggi!
Nessuno pianga la sua miseria:
il Regno è aperto a tutti!
Amen.

13 ottobre 2019
Ultima apparizione di Fatima

P. Vincenzo S.d.P.
Arcivescovo di Catanzaro Squillace