Nella cucina del centro-nord Italia, in epoca rinascimentale (e nei secoli successivi), si utilizzava molto diffusamente un condimento chiamato agresto, ricavato dalla cottura dell’uva non ancora matura. Chi era mandato nelle vigne a prelevare il frutto acerbo per preparare il condimento, non di rado raccoglieva, di nascosto, l’uva buona da tenere per sé. Questo gesto prese il nome di “fare l’agresto”, che col tempo si è trasformato in “fare la cresta“. Azione che tutti, più o meno, conosciamo perché tutti da piccoli, e qualcuno anche da grande, abbiamo provato a farla trattenendo qualche spicciolo dal resto della spesa, o mordicchiando di nascosto qualcosa da mangiare (un frutto, un pezzo di torta, un dolcetto, ecc.), o sorseggiando furtivamente qualche bibita.
Il Vangelo di questa domenica parla di un amministratore abituato a fare la cresta al suo datore di lavoro.
Quando fu scoperto, o meglio accusato, degli illeciti si sentì perduto: era finita la pacchia e la sua stessa vita; avrebbe perso il lavoro e, con le credenziali ricevute, nessun altro lo avrebbe assunto ad amministrare; gli sarebbe toccato mendicare, ma si vergognava, o lavorare sotto il sole nei campi, ma non ne aveva le forze.
Gli venne un’idea: convocò uno ad uno i debitori del padrone e fece un’ultima “cresta”. Questa volta non a vantaggio proprio, ma a loro favore: a chi aveva un debito di cento barili di olio gli annotò solo cinquanta; a chi doveva cento misure di grano gliene segnò ottanta.
Ne approfittò di quegli ultimi minuti di lavoro per assicurarsi un futuro facendo quello che sapeva fare meglio: la cresta.
Il padrone quando ne fu informato, nonostante l’evidente irritazione, non potette non lodare quell’amministratore disonesto per la sua scaltrezza.
Con questa conclusione alla parabola, Gesù quasi ci invita a fare noi la “cresta” a lui!
Prendiamo un po’ della sua ricchezza (amore, gioia, pace, verità, misericordia) per donarla agli altri: ci guadagneremo un futuro di benedizione.
Don Michele Fontana