L’Arcivescovo di Catanzaro-Squillace
Lettera pastorale
Nella stessa barca …
Chiesa, Vescovi, preti e fedeli:
insieme nella recrudescenza della pandemia globale
Carissimi presbiteri, carissimi fedeli, soprattutto i colpiti dal Covid, nei vostri affetti, nelle vostre relazioni, carissimi abitanti dell’ Arcidiocesi di Catanzaro Squillace e della Calabria – dichiarata “zona rossa” cioè ad alto rischio e perciò preoccupati per l’andamento del contagio, carissimi tutti e tutte, che vivete nel “buio” circa il prossimo futuro: coraggio! «Vedano i poveri e si rallegrino; voi che cercate Dio, fatevi coraggio» (Sal 69,33).
Tutti nella stessa barca. Come la peste e le guerre, anche la pandemia da Covid-19 non guarda in faccia nessuno, né segue i tempi dei calcoli algoritmici: improvvisamente, infatti s’impenna, particolarmente in alcune zone, “ad alto rischio”. come la nostra, secondo la valutazione degli esperti. Ora il male colpisce chi non se lo aspettava, ed aggredisce sia produttivi che improduttivi, generando una ben più pericolosa pandemia sociale. Assistiamo al riemergere di odi e di egoismi, vediamo crescere i timori per il lavoro e quindi per il futuro dei singoli e delle famiglie. È una pandemia che smentisce perfino il sapere di sanitari ed altri esperti, spingendo ora a contare le fasi e le escalation e continuando a suggerire di più il distanziamento interpersonale e la protezione delle vie aeree mediante mascherine. Come gli Apostoli sul lago nel mezzo della tempesta, siamo davvero tutti nella stessa barca del timore e del tremore, mentre la Provvidenza sembra assente: «Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: “Siamo perduti” (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme». All’inizio del terzo millennio, Martini e Verzé avevano pubblicato un libro intitolato Siamo tutti sulla stessa barca, un autentico breviario di riflessione per meglio comprendere, i nostri giorni e le questioni connesse, mediante un appassionato alternarsi di domande e risposte, soprattutto sull’ambito religioso. Allora, come oggi, il cielo è muto, silente. Mai disgiunti dalla quotidianità (la totalità umana di corpo, mente e spirito, esistenza individuale e pratica sociale, rapporti tra le confessioni cristiane, mistero della sofferenza, questioni della scienza e della ricerca, organizzazione e vita della Chiesa), ci domandiamo: chi o che cosa ci potrà mai tirar fuori da questa deriva, da questa discesa?
La via di fuga potrebbe essere quella che risuona più di una volta in alcuni contesti sfiduciati: si salvi chi può, o peggio ancora in nome del più becero egoismo suicida: meglio a te che a me. Se la barca affondasse davvero, sarebbe comunque inutile gettare a mare il Giona di turno, sperando nella salvezza “placando” la divinità adirata. Racconta il libro profetico, che Giona s’imbarcò su «una nave diretta a Tarsis […] lontano dal Signore» (Giona 1,3). Arrivata la terribile tempesta, equipaggio e passeggeri gettano «le sorti per sapere per colpa di chi ci è capitata questa sciagura. Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona» (Giona 1,7). Inutile, insomma, tirare a sorte e buttare a mare qualcuno pur di salvarsi dalla tempesta: proprio attraverso la misera sorte di Giona, Dio potrebbe interpellare l’essere umano in un modo del tutto inusuale, come suggerisce lo stesso racconto profetico: essere gettato in mare, per calmare le acque in tempesta. Solo che, con questo gesto estremo, si salva non soltanto la barca, ma lo stesso Giona anche se inghiottito da un grosso pesce, Giona resta «nel ventre del pesce tre giorni e tre notti» (Giona 2,1). Addirittura, nel Nuovo Testamento, Gesù stesso richiamerà quel segno profetico, in riferimento alla sua vicenda esistenziale. Anche il Maestro dei Vangeli andrà, come Giona, resterà tre giorni nel ventre della terra, sepolto, dopo una morte atroce, assoggettato all’ombra della morte, peraltro subìta ingiustamente. Dio esiste «per liberarli dalla morte/ e conservarli in vita in tempo di fame» (Sal 33,10).
Tutti, senza distinzione! Davvero siamo tutti nella stessa barca e tutti potremmo essere eliminati senza preavviso. Il principio di uguaglianza e di pari dignità delle persone sane e malate viene in qualche modo smentito, o almeno contraddetto dalla pandemia da Covid-19, perché data l’esigua disponibilità dei posti, i sanitari sono costretti a prendere angosciose decisioni, ovvero operare delle “scelte tragiche”, sulla base della gravità dei casi clinici e sulla compresenza di altre malattie gravi. Capita spesso, anche l’impossibilità di riscontrare certezza negli esiti dei vari tipi di tampone -cosa questa- che causa ritardi nelle comunicazioni, “costringendo” i familiari all’isolamento fiduciario o alla quarantena. C’è poi la condizione precaria di chi è solo, o per strada oppure è privo della libertà personale, ovvero esposto a residenze protette (RSA). Sono entrati come in collisione alcune conquiste contemporanee: quale la libertà di rifiutare le cure, vista l’oggettiva insufficiente disponibilità di posti letto. Il bene superiore della salute pubblica ha messo in secondo piano e distinto tra questo bene primario e altri beni importanti, ma subordinati -come- la libertà di espressione artistica o religiosa; oppure ha vietato la libera circolazione tra le zone ad alto, medio e basso rischio, e le altre zone nazionali ed europee. Ogni tanto c’è il rischio di dover distinguere perfino tra persone dotate di capacità produttiva e gli altri, ovvero l’esercito di anziani, di diversamente abili, non depositari di garanzie assicurative o pensionistiche, non accuditi da gruppi familiari solidali. Da qui la legittima domanda, se le norme e le tutele siano uguali per tutti, o al contrario, non si debba procedere a un riconoscimento come per gradi. Se si è sulla stessa barca tutti, la comunità ecclesiale, soprattutto nei suoi ministri ordinati, istituiti e di fatto, non può cedere ad alcuna forma di discriminazione, non foss’altro per il fatto di essere “custodi” del Signore Gesù, in tempo di pandemia. Ha detto il 21 settembre scorso l’Arcivescovo Ivan Jurkovič: osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra: “Tutti, tutti meritano tutela dei propri diritti”. Valutando la terribile situazione in corso, è necessario riferire con precisione sulle infezioni da coronavirus e sui decessi che ne derivano per migliorare il monitoraggio alle citate RSA. “Le decisioni sull’assegnazione delle risorse mediche, compresi i ventilatori, possano essere o siano già state prese esclusivamente in base all’età” dei pazienti. Per questo, è della massima importanza” che i protocolli sanitari siano guidati da approfondite valutazioni cliniche e da un chiaro impegno per la salvaguardia dei diritti e della dignità di ogni persona, senza discriminazioni in base all’età (come anche in base al sesso, o alla condizione sociale ed economica, o ad altri parametri tipici della società opulenta). I noti principi del rispetto dei diritti fondamentali della persona e del rifiuto di ogni ingiusta discriminazione – che sono sanciti a chiare lettere nello stesso Catechismo della Chiesa cattolica – escludono non solo la pena di morte, ma tutte le legislazioni penali violente o discriminatorie nei confronti dei deboli, delle donne, degli anziani, degli omosessuali… e di ogni altro soggetto debole. A maggior ragione escludono discriminazioni in base al contagio o alla malattia: «Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia» (1Pt 2,10)
Vescovi, preti e ministri della Chiesa: vigilare ad essere al servizio degli altri.
Mentre ci isoliamo il più possibile per cautela sanitaria, la morte continua a visitare le nostre case, presentandosi come un ladro di notte. Sentiamo forte il dovere di vigilare e di essere preparati! «Vigilate, dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all’improvviso trovandovi addormentati» (Mc 13, 35-36). Non si sa, dunque, vegliate. E san Matteo: «Vegliate perché non sapete l’ora nella quale il Signore verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi siate pronti…» (Mt 25, 42-44). In una novella, il sacerdote Pierre l’Ermite, racconta di essere stato invitato ad un rinfresco. Passa la signorina col vassoio dei dolci e delle tartine: “Prenda, prenda”. Uno dice: “Grazie, signorina, non posso”. “Ma prenda, su”. “Grazie proprio non posso, ho il diabete. Più di quel tanto non posso prendere: devo vivere come un orologio, pieno di riguardi. Non è possibile, grazie, non insista, la prego”. “Ah, lei signore – dice un altro – io sì, io ne prendo anche due, ho una salute di ferro, mi sento benissimo, ho sempre un grande appetito, sono una forchetta formidabile”. Pierre l’Ermite li guarda entrambi e parla con essi del più e del meno. Il rinfresco si protrae fino a tardi, ed era ormai notte quando ogni ospite se ne va per i fatti propri. Pierre l’Ermite va a dormire. Nel pieno della notte suona il campanello. Chi è, che c’è? Presto, presto, venga, c’è uno che sta male, anzi è gravissimo. Chi è? Uno che stava con lei, ieri sera, al rinfresco. Ho capito, dice tra sé il prete, si tratta del primo, del numero uno, quello del diabete. Oh, poveretto, guarda che destino, nonostante tutte le precauzioni! Corre, ma è troppo tardi! Però non era quello del diabete, era l’altro. Non era quello che viveva come un orologio, ma l’altro che era un colosso di salute. Il Signore non fa molte distinzioni. Dico: tutti noi senza eccezione, siamo portati ad attaccarci alla vita, anche quando è evidente che stiamo per lasciarla: non siamo capaci di capire ciò che è evidente. Bisogna abituarsi a sospettare, a cogliere i segni, perché è tutt’altra cosa soffrire sapendo di dover morire. E dobbiamo saperlo non da soli, ma insieme. Tra l’altro l’abitudine alla distanza interpersonale come unico antidoto al contagio ha comportato il rischio di allontanamento sociale ed emotivo, connesso alla necessità dell’isolamento e di movimento sul territorio ridotto all’essenziale. Tuttavia, le stesse mascherine, invece di essere portate per non danneggiare e contagiare l’altro, stanno diventando dei modi per coprirsi il volto, per mimetizzare lo sguardo, per girare gli occhi dall’altra parte, per chiudersi tassativamente all’altro che, da altro me stesso, si trasforma in “untore” di questa sorta di “nuova peste” che si diffonde in maniera silente e, a volte, senza neppure manifestarsi con sintomi visibili.
Certo, chi svolge un ministero ecclesiale (si pensi ai ministri della consolazione, oppure ai ministri straordinari della santa comunione) non è immune dal contagio che, si sa, passa attraverso i contatti e la frequentazione da vicino. Certo, Vescovi e preti stanno pagando anch’essi il loro drammatico tributo alla malattia e, in diversi tristissimi casi, devono cedere alla morte a seguito degli sviluppi della malattia da Covid-19. Ma tutto questo può mai radicalmente e totalmente inibire i servizi ecclesiali di annuncio profetico, di celebrazione, di prossimità ai deboli e agli scartati? Noi ministri non siamo dei funzionari e non possiamo essere analogati ai medici di base, i cui studi sono talvolta diventati inaccessibili per motivi di contagio, mentre la telemedicina o la diagnosi telefonica o informatica sono diventate prassi abituale, fino a segnare il quasi tramonto della medicina osservativa, o da contatto, nella quale la diagnosi, come si dice, è clinica, slegata dagli esami e dagli accertamenti. Sarebbe grave se il cautelativo livello di inaccessibilità riguardasse anche gli edifici di culto, i confessionali, le pratiche burocratiche degli uffici parrocchiali! Tra le cautele inevitabili e l’inaccessibilità, c’è grande distanza e differenza! Nell’esistenza cristiana i corpi fisicamente presenti nella confessione individuale o nei riti del Battesimo o degli altri sacramenti, come l’Unzione dei malati sono parte integrante dei ritmi celebrativi della comunità, nei quali anime e corpi sono integralmente congiunti. Certo, abbiamo tanti social e tanti strumenti e piattaforme informatiche per poter farci prossimi, incontrare e incontrarci (e i parroci fanno benissimo, ad esempio, a continuare gli incontri di catechesi on line, come fanno anche alcuni gradi di scuola pubblica). E tuttavia, la comunione eucaristica spirituale non sostituisce né integra la Comunione al vero corpo-sangue-anima-divinità di Gesù Cristo. A preti e ministri ordinati, suggerisco un esame di coscienza quotidiano sul proprio grado di presenza o inaccessibilità: oggi sono stato funzionario o mediatore del Salvatore? Ho soprattutto custodito e salvaguardato me stesso, ho cercato soprattutto me stesso, la mia incolumità, la mia comodità, il mio ordine, oppure ho lasciato che la giornata andasse principalmente al servizio degli altri? Come i medici e gli infermieri, in prima linea a combattere il coronavirus e che si ammalano e muoiono a causa della loro professione e missione, non è forse vero che il mio servizio sacerdotale e ministeriale (ai diversi livelli ministeriali) esige che sia posto al primo posto non il timore del contagio, ma il servizio agli ammalati, ai poveri, agli ultimi e agli scartati? Ascoltiamo il monito di Pietro: «Ciascuno viva secondo il dono ricevuto, mettendolo a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, parli con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!» (1Pt 4,10-11).
Andare comunque oltre. Il cristianesimo è, tra l’altro, la religione della speranza. Una speranza situata, incarnata, poggiata sulla roccia di Cristo e della sua resurrezione: quindi invincibile. Dio non è morto, Christus vivit! Parlando dello Zarathustra – uno degli scritti più famosi di Friedrich Nietzsche – la sorella del filosofo scriveva che «Zarathustra» è «l’opera personale di mio fratello, storia delle sue intime esperienze, delle sue amicizie, del suo ideale, dei suoi rapimenti, delle sue delusioni e delle sue sofferenze più amare.
Ma soprattutto si delinea qui, splendente, l’immagine della sua più alta speranza, del suo fine più determinato»: allevare l’oltre-uomo. Questo segreto abitatore dei pensieri del nostro tempo, Nietzsche, avrebbe voluto profetizzare un uomo ben al di là della tavola dei valori cristiani, un essere che fosse reso possibile al di là del bene e del male e degli stessi ideali cristiani, oltre il bene e il male e gli stessi ideali cristiani, uno che risorge dalle ceneri della morte e delle stesse divinità tradizionali. Invitando non a conservare, ma a superare l’uomo stesso, a un certo punto l’antico saggio persiano esclamava (sempre in Così parlò Zarathustra): «Dinanzi a Dio! Ma Dio è morto!… Uomini superiori, questo Dio fu il vostro grande pericolo. Voi non risuscitaste che da quando egli giacque nella sua tomba. È ora soltanto che ritorna il grande meriggio; ora soltanto l’uomo superiore diventa padrone! Comprendete voi queste parole, o miei fratelli? Voi siete atterriti: vi colse forse la vertigine? S’apre qui l’abisso per voi? Vi abbaia contro il cane dell’inferno?
Ebbene! Suvvia! Uomini superiori! Ora soltanto la montagna dell’umano avvenire s’agita nelle doglie del parto. Dio morì; noi vogliamo ora, che viva il superuomo».
Pur nell’ambiguità voluta che, a volte, è scivolata in pessime interpretazioni di superomismo, il lucido-folle filosofo, che apriva il Novecento, segnalava che la grande rinascita può ancora avvenire; e proprio nel momento del crollo di ogni assoluto, che viene da lui, in maniera folle e lucida, identificato con la parola “Dio”. Riletto in termini positivi, in questi giorni terribili, non è forse, questo, seppur per contrariam speciem, un appello a non temere? Purché affratellati, non sapremo noi, senza affossare Dio e le sue esigenze di salvezza e provvidenza, risorgere dalle nostre ceneri? Questa pandemia ci sta facendo riscoprire affratellati, ma non -come dovrebbe essere-, in quanto figli del medesimo Padre celeste, ma perché tutti accomunati da una fragilità estrema: il rischio di contagio non asintomatico e, quindi, il rischio di passare da un agosto trascorso al mare sulla spiaggia a un novembre con lo scafandro respiratorio; il rischio di percepire il brivido di una vacanza, per poi ripiombare nei divieti di spostamento e di chiusura di esercizi commerciali; il rischio di sapersi contagiati, ma poi abbandonati a se stessi da una macchina sanitaria che non riesce a comunicare a parenti e affini che cosa fare, nonostante le app; il rischio di non muoversi, ma senza che vi sia dappertutto il deterrente dei controlli… Non è, tutto questo e altro, l’ennesimo avviso che bisogna portarsi oltre il momento contingente, purché si resti insieme, cioè sentendosi sorelle e fratelli? Con parole che anche il lucido-folle desumeva, alla fine, dalla parola biblica, siamo davvero come nel momento delle doglie del parto, soffrendo tanto, ma nella speranza di generare nuova vita: «La creazione infatti fu sottomessa alla vanità – non per sua volontà, ma da colui che ve la sottopose – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per ottenere la libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad ora» (Rm 8,20-22). Nella stessa creazione che geme, ma spera nella nuova nascita, ci sono anche i coronavirus, quelli che pur avendo il proprio posto nell’organizzazione cosmica, compiono il salto di specie e ci ammalano. Insieme con noi nella casa comune, anche queste creature a RNA possono attaccarci, fare il salto di specie e, Dio non voglia, portarci alla tomba. Ma tutto questo non è una minaccia per l’uomo dei tempi nuovi. Noi siamo ben al di là dell’oracolo di Nietzsche, perché non vogliamo assassinare Dio, né annunciare che Dio è morto, nonostante la sfiducia e, talvolta, la disperazione. Per noi cristiani l’uomo dei tempi nuovi, peraltro, non è un uomo, ma una donna: vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle. Annunciata dall’Apocalisse: «…era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto» (Ap 12,2). Noi cristiani intravvediamo, in quest’oracolo del veggente di Patmos, la Vergine Maria sul punto di generare Gesù, nostro primo fratello: «destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio, verso il suo trono…» (Ap 12,5).
Spes contra spem. Questa potente immagine biblica c’inviti ad una speranza incrollabile.
Con l’aiuto del “santo nostro”, Francesco di Paola, con la protezione dei nostri santi patroni, con la fiducia nel nostro angelo custode, preghiamo affinché l’azione potente dello Spirito Santo operi in noi e nelle nostre terre. Questa potente immagine apocalittica ci solleciti a non fermarci al dolore delle doglie dal quale siamo afflitti e ci spaventa ed attanaglia, facendoci a volte diventare egoisti fino al punto di sperare di restare immuni a danno di tutti gli altri. Dopo il dolore, nonostante la grande sofferenza per le doglie, viene la nascita attesa, viene la redenzione. Cantiamolo ad ogni Messa, carissimi, tutti uniti, Vescovo, presbiteri e popolo: «Nell’attesa della sua venuta!». Vieni Signore Gesù! «Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti» (Ap 17,20).
Catanzaro, 17 novembre 2020
Vincenzo Bertolone, S.d.P.